Verrà un giorno nel quale si guarderà al nostro tempo con quella distanza che ne consentirà una comprensione più serena e distaccata. Sarà forse in quel tempo che si guarderà ad artisti come Roberto Rampinelli con rinnovata attenzione, comprendendone appieno l’eccezionale forza sottesa a scelte che oggi possono apparire di fiero anacronismo.
La scelta del pittore, così ben evidenziata da Giuseppe Ardizzo in occasione della sua ultima antologica bergamasca, si arricchirà, allora, di una comprensione che esula da qualunque degli pseudo-valori che il nostro tempo ha imposto come uniche divinità da venerare. Il silenzio di Rampinelli, quella sospensione senza tempo e senza spazio che rappresenta la cifra più autentica di qualunque rappresentazione pittorica, necessità per realizzarsi di una concentrazione alimentata da solitudine e isolamento. Solo in quella dimensione la contemplazione può realizzarsi, generando quella poesia e quel senso di spirituale staraniamento che così forte, ancorchè bisbigliato, si manifesta all’osservatore sensibile.
Solitudine, silenzio, isolamento, Bellezza. Fiero orgoglio nella difesa di un’appartenenza, nella tenace e inesausta conquista di spazi e tempi senza memoria, eppure così radicati tra la ferinità e il divino umano. Lo spazio si fa tempo, le forme si trasformano in suono, in un ritmo misterioso e trascendente di colori, ombre e luci che trascendono la realtà per trasportare il visibile in una dimensione incomprensibile in termini razionali. E’ il mondo delle idee quello che Rampinelli insegue e celebra; un non-spazio che mina le basi del cinismo contemporaneo, celebrando la Bellezza senza tempo della memoria e di un futuro già possibile nel presente.
Rampinelli concentra vita, pensieri ed emozioni in un esercizio pittorico che è, insieme, preghiera ed atto di Fede. Una pratica più affine ad una certa meditazione claustrale, ad un mantrico esercizio spirituale che eleva il silenzio a moto trascendente, che trasfigura qualunque realtà e qualunque subitanea apparenza. Tutto in Rampinelli incede col passo lento ma sicuro di fiero sacerdote di una memoria futura e futuribile, di una Speranza che infonde alle forme un potere evocativo difficilmente riconoscibile nel mondo circense delle provocazioni e dell’apparenza ad ogni costo.
L’orgoglio di un’appartenenza è scelta di libertà. Rampinelli è un artista libero che vive liberamente l’infinita varietà possibile di un tempo senza confini. Libertà è la scelta consapevole di sfidare un tempo scandito dall’alternarsi delle giornate, delle stagioni, degli anni, che si susseguono inesorabilmente, apparentemente uguali a loro stessi eppure così intimamente diversi. Da qui la scelta, pure scientemente compiuta, di una pittura d’emozione, prima che di soggetto, che forza l’osservatore al silenzio ed alla contemplazione e nelle quali ogni apparenza è fugata nella sua distruttiva capacià di tacitare ogni vibrazione intimamente autentica.
Metafisica umana, esercizio poetico prima che intellettuale, che dischiude le porte del visibile verso quel segreto cuore che sommessamente palpita in ogni forma ed in ogni ombra.
Memoria come suprema provocazione in un tempo senza passato.
Silenzi laceranti in un tempo senza pace.
Fede nella Bellezza in un tempo senza forma.
Gioia per gli occhi in un tempo pieno di terrore.
Alberto Agazzani
Reggio Emilia, 6 febbraio 2008
Presentazione Rampinelli per mostra Bergamo
Qualsiasi criterio si configura come strumento fabbricato dall’uomo e non calato dal cielo: ne possono esistere di più o meno raffinati, di più o meno pertinenti, ma sempre di strumenti provvisori si tratta. Uno di questi, che al momento – e limitatamente ad un punto di vista – pare più di altri affidabile, ci è fornito da un concetto che riguarda parte della galassia semantica del verbo decidere e del suo sostantivo, decisione. Se, in prima istanza, questa scelta può suscitare sorpresa rispetto all’opera di Roberto Rampinelli, ad una riflessione più attenta è possibile scoprire che essa si abilita a indagare alcuni aspetti influenti dell’opera che tematizza questa breve riflessione.
Il decidere non è mai gesto scontato e mai definitivamente riconducibile a una forma che avvalli ciò che al momento si auspica: l’aleatorio è sempre in agguato e l’eterogenesi dei fini rende vana la ricerca di una rassicurante falsariga, che si ponga – a mo’ di alveo naturale – a garanzia del pacifico prodursi degli esiti. Tra i molteplici significati, propri di questo termine impegnativo, due più di altri paiono manifestare una dinamica che li relaziona secondo un inquieto legame, in virtù del quale emerge qualcosa che non è tanto ascrivibile all’ordine del significato, quanto all’ordine del senso. Quando due momenti strutturanti la ‘decisione’ – la risoluzione connessa alla scelta e la separazione immanente al decidere – entrano in ‘dialogo’, può accadere qualcosa che, nella sua forma più rimarchevole e più inspiegabile, richiama le battute iniziali di La linea d’ombra di Conrad: “Questa non è la storia di un matrimonio. Non mi capitò così brutta. Il mio atto, pur avventato, ebbe piuttosto carattere di divorzio – quasi di diserzione. Senza alcun motivo di cui una persona ragionevole potesse rendersi conto abbandonai il mio lavoro – lasciai il mio posto – me ne andai dalla nave di cui al peggio si poteva dire che era un piroscafo e quindi, forse, non meritevole della cieca fedeltà che …”. È noto che la decisione presa dal giovane ufficiale di marina non lo porterà a una carriera in terraferma come aveva progettato, ma – hors programme – a comandare una nave destinata a diventare oggetto allegorico, ‘contenitore’ di fragilità. Spazio di disperazione che vede distanziarsi sempre più il compimento del viaggio.
Ma l’approdo viene infine raggiunto – i naviganti allo stremo -; e questo segnerà l’indispensabilità della lotta per superare la prova come pedagogia della rinascita. La lotta, quando fa capo al senso, non è fonte di appassimento del corpo, fabbrica di relitti; ma è condizione di giovinezza. Giovinezza che permane soltanto quando entra in gioco un’arte: la consapevolezza che i travagli vanno affrontati, e che ci si deve fare strateghi per poterli affrontare. Soltanto così, ogni approdo si sottrae al déjà vu, e si fa sempre nuovo approdo.
Perché la scrittura di Conrad può aiutarci a comprendere meglio alcuni aspetti peculiari dell’opera di Roberto Rampinelli? Per quale motivo, in Conrad come in Rampinelli, la decisione assume il ruolo di un possibile snodo orientativo per la leggibilità dell’opera?
Il risolversi a … connesso al separarsi da … non sono gesti riducibili all’inanità del vacuo e alla bizzarria del capriccio: non si prendono decisioni nell’ordine del senso facendosi condurre dal sussulto precipitoso, dall’accecante immediatezza dell’abbaglio. Pur nella consapevolezza che qualsiasi decisione, anche la più ponderata, può anche non rendersi garante – come mostra Conrad sin dalle primissime righe del suo libro –, diventa vitale pronunciare un no; che è un no al laisser-faire, all’acritico accomodamento quotidiano, a una visione del mondo unidirezionata; in sostanza, a quel neghittoso tenersi lontani dal ‘viaggio’ che, se da un lato, cautela dal rischio di ‘mettersi in gioco’, dall’altro, corre inconsapevole verso la bonaccia drammaticamente indicata da vele prive di quel respiro che fa nascere le cose. Il fatto è che per conoscere – e per conoscersi – occorre decidere di rischiare; e il rischiare in vista del senso non è una qualsiasi decisione pomeridiana, ma è la decisione.
Il tratto infantile che caratterizza buona parte del nostro modo di vivere è dato dalla perdita della capacità di decidere: si scambia per decisione l’improvvisare lì per lì, l’assecondare di getto il capriccio, il credere che sia possibile diventare pratici del mondo con precipitosa bramosia, quella stessa che priva le cose della loro essenza.
Da qui la necessità di compiere un salutare passo indietro per indagare i nostri modi di vedere e di costruire la realtà, per evitare di ridurre tutto a ‘cosa’. E proprio questo pare voler dire la pittura di Rampinelli, o almeno un côté rilevante del suo non semplice discorso. Il decidere per Rampinelli è il risolversi a tracciare i camminamenti secondo i suoi passi, senza andare per sentieri che fanno parte di un ormai consolidato repertorio cartografico. Tutto è reale nella sua pittura, ma nulla rimanda al realismo, alla concretezza di elementi rinvenibili nella fisicità del quotidiano L’opera nasce da un decidere, che porta a camminare sull’impalpabilità di un filo. Esile legame che può anche indurre in equivoco l’osservatore: il vedere affrettato e troppo voglioso di trovare referenti disancora dal quadro e porta all’esterno, a vagare in cerca di somiglianze che nulla hanno a che vedere con il discorso che si articola nell’opera. Ma a un più attento guardare, esiste qualcosa all’interno dei quadri di Rampinelli che segnala come gli oggetti presenti non abbiano consistenza, se non come oggetti linguistici. Lo sguardo non frettoloso – quello che decide di compiere il ‘passo indietro’, di non cercare somiglianze esterne – viene soccorso dalla natura dei contesti presenti nei quadri di Rampinelli: vere e proprie grammatiche rivelative del percorso, ‘macchine’ contestuali che fungono da ‘contenitori’ non passivi, dal momento che dialogano con gli ‘oggetti’ che l’artista ha sentito necessario collocare lì, a soddisfare le sue esigenze discorsive di natura poetico-allegorica. Nell’opera di Rampinelli la costruzione di contesti assume le fattezze di un’‘ambientazione’ del tutto svincolata da quello che logica esperienziale vorrebbe. Se non in rarissimi casi – da indagare con altre curvature di discorso – gli ‘sfondi’ o i piani sui quali poggiano gli ‘oggetti’ non sono mai individuabili nello studiato aspetto mimetico del paesaggio, o nella domestica conformazione di un ripiano. A ben guardare, sono macchie; macchie discorsive che dicono altro e destinate ad altro.
Ma se l’oggetto fosse dipinto con intenzioni naturalistiche, potrebbe forse avere qualche margine di credibilità nel poggiare sul ‘nulla’ di una macchia di colore?
In realtà, una macchia svela la sua natura di elemento di linguaggio; motivo per cui, per coerenza di senso, anche l’oggetto viene ad assumere la consistenza ponderale della ‘parola’.
A questo punto, diventa illuminante adottare e adattare una riflessione di Jean Ricardou, per dire che l’esprimersi di Rampinelli non viene a configurarsi come pittura di una narrazione, ma come narrazione di una pittura.
Giovanni Ardrizzo
L’orizzonte di attesa di roberto rampinelli
Nell’arte moderna e contemporanea i pittori ricorrono spesso agli stessi temi, con i quali misurarsi quasi a constatare come il ritorno dell’uguale – voglio dire su uno stesso tema del mundus immaginalis che, scrive Holderlin nell’Iperione, ci matura a un sapere di cui pareva si fosse perduta la traccia e la speranza – segnali per l’autore la diversità che il trascorrere del tempo e dello stile comporta, nella medesima psiche o di uno stato d’animo, che può essere percepita come diversa da ogni altro suo momento. Non per nulla Claude Monet aveva trasferito tale percezione del mutare dell’io sur le motif, cioè nel mutare della stessa soggettività del tempo che nel trascorrere delle ore trasforma l’oggetto di base secondo il variare della luce. Invece nelle “nature morte” di Roberto Rampinelli questo ritorno sullo stesso tema finisce per essere una specie di ossessiva, molteplice riprova della stessa complessità dell’Es, che solo attraverso la constatazione della propria continua diversità può affermare la sua stessa identità di fondo: che è un’identificazione del proprio stesso mutare per essere se stesso.
Senonchè, prima di dipingere, il maestro parigino creava con l’immense èquivoque de reflets
la natura: piantava le ninfee nel suo giardino di Giverny, le faceva crescere, le lasciava galleggiare nell’acqua, costruiva un piccolo ponte pieno di fiori su un ruscello; e solo quando la natura era diventata come egli voleva, cominciava a dipingerla. Rampinelli non ha l’ambizione di far nascere la natura: gli basta disporla su un orizzonte dove l’alterna e indistinta unione della luce e dell’ombra non è interpretata in senso tattile, come tramite di emergenza prospettica, ma come vita interna che dà il senso della “spazio curvo”, di qualcosa cioè che è al limite di se stesso, che sprigiona pertanto più energia potenziale che piegandosi, simile a un arco, aumenta lo stato di tensione – si direbbe – di quell’orizzonte di attesa (lo gombrichiano Umgreifende?) che pare additare gli oggetti inclusi come gli stessi nuclei parventi di energia del visibile. Prende un piano o una superficie e vi posa le sue mele, i suoi fiori, i suoi vasetti: così che, in ogni quadro, avvertiamo la presenza di una mente luminosa che ha costruito intellettualmente una scena, nella quale l’infinito naturale e l’infinito psichico si sovrappongono.
Al pari della metis colorata di Ulisse, il percorso creativo di Rampinelli è libero, avventuroso e complesso pur se resta fisso sugli stessi motivi, nella certezza che un olio su una piccola carta non nasce da sensazioni estranee alla pratica dell’arte, da impulsi noumenici di accento diverso, ma si costruisce pazientemente, nel corso di un dialogo ininterrotto con le cose, per merito della capacità autonoma di esprimere la forma. E’ da questa base, da dietro le solide mura di questo principium, che l’artista bergamasco ascolta, nell’arco di tempo della sua lunga esperienza pittorica e incisoria, voci vicine e lontane. Vicine sono quelle dei maggiori protagonisti dell’arte italiana dei primi decenni del Novecento, le voci di Morandi, de Chirico, Carrà, della Metafisica e del Realismo magico; più lontane quelle di Corot, che sempre ama intensamente, e del Cèzanne profetico del Mont Sainte-Victoire, che rappresenta per lui un faro, un archetipo ideale. Più lontane ancora quelle di Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca, e degli altri grandi interpreti dell’eterno spirito italiano. E si può dire che, alla fine, nonostante la lontananza, ma al di là di ogni novecentesco echeggiamento, sono quelle che per Rampinelli, insieme alle suggestioni per i silenzi e i sogni di Carlo Ceci e della “scuola urbinate”, hanno un più partecipe e commosso ascolto.
Di fronte a opere degli ultimi due anni quali Incontro in Val d’Orcia, Discesa e Insieme, come non sentire una continua aderenza alla vita nell’esercizio del dipingere, portato avanti con tanta amorosa concentrazione da Rampinelli? Quel passare, per esempio, dalla felice sicurezza dei colori e delle forme di Rosa in fuga e di Orizzonte inquieto, da quella pura, solare luminosità di Tre mele e di Presenze in rosso ai colori sempre più labili, più autunnali, più sommessi di Teatrino e di Notturno insieme, dove prevale lo scuro dell’ombra, non corrisponde forse al mutare dei colori della nostra vita, dei nostri stessi sogni? In queste opere mature di Rampinelli c’è il medesimo passare da un senso di assoluta e calda estate, che sembra rievocare alla nostra memoria la quiete e la nostalgia di un’Italia remota e nascosta, alle impronte, semplicissime forme di limoni, di fichi, di pere, di ortensie, di garofani, di tulipani, di recipienti, di scatole, di terrine, fantomatiche silhouettes di una realtà che va allontanandosi e che si vuol trattenere, cenere spenta che serba ancora la fugace traccia di qualcosa che fu, ma che percepisce come un diafano riflesso. Sono lievi cortine d’ombra, quinte impolverate che, come le acque ferme quando fanno la ragia, arrestano lo sguardo ad un cristallo appena smerigliato.
Floriano De Santi